Il viaggio in Iraq di Papa Francesco. Tra identità e fratellanza

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Papi “in cammino”. Nella terra di Abramo, con ebrei, musulmani, yazidi e curdi per pregare la pace

di Maria Pia Bozzo

 

Quale è stato il senso del viaggio in Iraq di Papa Francesco che ha colpito l’intelligenza e il cuore dei fedeli più di altri che pure erano stati importanti? Forse lo possiamo trovare nel discorso che Raniero La Valle, indimenticato direttore di Avvenire all’epoca del Concilio, chiama “il discorso delle stelle” avvicinandolo al famoso “discorso della luna” di Giovanni XXIII, pronunciato la sera dell’apertura del Concilio. Discorso che Papa Francesco ha pronunciato a Ur, la patria di Abramo, con gli occhi alle stesse stelle additate da Dio ad Abramo, padre delle fedi.

E i rappresentanti delle fedi abramitiche, ebrei, cristiani e musulmani erano lì convenuti insieme al papa, che si è presentato in Iraq quale pellegrino penitente. Probabilmente proprio nel ritorno a quelle antiche pietre, sconvolte dalla guerra scatenata nel 1990 dall’Occidente e ancora oggi non pacificate, da pellegrino incolpevole che chiede perdono, va ricercato il senso più profondo di questo viaggio.

A Ur dei Caldei il Papa esprime il sogno che “la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra”. Un sogno che è un programma di impegno per uomini e donne di buona volontà, per una terra riconciliata che si estenda oltre l’Iraq in quella zona medio-orientale tuttora teatro di scontri feroci, di sopraffazioni, di veri e propri genocidi. E alcune frasi e alcune parole pronunciate in quei luoghi, quasi da esse riconsacrati, sono destinate a rimanere nella memoria come ispirazione e guida, non solo dei cristiani.

Se Dio è il Dio della vita – e lo è – a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace – e lo è – a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore – e lo è – a noi non è lecito odiare i fratelli.”

Se la preghiera a Ur ha dato al viaggio del Papa un grande significato nel rapporto interreligioso, l’incontro a Najaf, città santa degli sciiti iracheni, con l’ayatollah al-Sistani ha avviato la relazione con l’islam sciita, dopo che con quello sunnita (presente nei paesi del Golfo) era stato firmato, nel 2019 ad Abu Dhabi, con l’imam al-Tayyeb il documento comune sulla fratellanza umana.

Proprio sull’importanza di questi rapporti il Papa si è soffermato con i giornalisti, in aereo, nel viaggio di ritorno, sottolineando la diretta ispirazione che gli proviene dai documenti del Concilio Vaticano II, l’inquietudine che prova per la fratellanza da cui poi è uscita l’enciclica “Fratelli tutti”. Un cammino che proseguirà nel tempo, anche se non si è nascosto tutte le diffidenze e le critiche che ha raccolto tra molti cattolici, timorosi o tradizionalisti.

Ma il viaggio in Iraq ha avuto un grande significato soprattutto per la comunità cristiana che ancora resiste tra le macerie della guerra e i colpi delle persecuzioni e del terrorismo. Ha condiviso la sofferenza e ha condiviso la speranza. In particolare a Qaraqosh, la città nella piana di Ninive, a maggioranza cristiana, dove il cristianesimo risale alla predicazione degli apostoli e dove, nella cattedrale ricostruita dopo le distruzioni del Daesh, la folla ha accolto il papa agitando le palme e cantando in aramaico, la lingua madre del cristianesimo siriano in Iraq, quella parlata da Gesù.

Anche fra le rovine di Mosul il Papa si è fermato ed è stato accolto da cristiani, musulmani, yazidi, curdi decimati dopo il dominio del sedicente stato islamico (solo i cristiani, da circa un milione e mezzo agli attuali 300.000). E anche qui, come pure a Erbil, ha elevato forte la sua preghiera perché Dio conceda pace, perdono e fraternità a quella terra e alla sua gente. “Non stanchiamoci di pregare per la conversione dei cuori e per il trionfo di una cultura della vita, della riconciliazione e dell’amore fraterno, nel rispetto delle differenze, delle diverse tradizioni religiose, nello sforzo di costruire un futuro di unità e di collaborazione fra tutte le persone di buona volontà.

Il viaggio del Papa nella terra dei due fiumi, l’antica Mesopotamia, il paese sicuro di Ninive e Babilonia, descritto nella Bibbia come un paradiso terrestre, si presenta come memoria di una grande civiltà, come sofferenza di una attualità lacerata, come speranza e impegno di perdono e di nuova pacifica convivenza. Perché quella terra non potrebbe tornare ad essere ciò che è stata per secoli? L’invito a pregare per la pace e la prosperità di quella gente e di quella terra vale anche per noi, accomunati dall’identità cristiana, ma soprattutto chiamati ad unirci al pellegrino penitente per le rovine che una guerra, incautamente scatenata nel 1990 e ancora nel 2003, ha lasciato ad una popolazione certamente incolpevole.

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