La colpa e la pena. Reclusi per sempre?

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dal nostro archivio

di Mario Chiavario*

Un “diminuito, ma sempre troppo alto numero di suicidi e di gesti autolesionistici, gli episodi di violenza e di sopraffazione, le carenze igieniche e la sostanziale inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, l’amputazione della dimensione dell’affettività, l’assenza di privacy, l’endemica mancanza di lavoro intra ed extra murario, la frequente de-territorializzazione della pena, l’aumentato, ma ancora insoddisfacente, ricorso alle misure alternative, le carenze dell’assistenza post-penitenziaria, l’elevata percentuale dei casi di recidiva”.

A disegnare questo fosco quadro della situazione carceraria italiana non è qualche contestatore “antisistema”. Sono parole che si leggono in apertura del recente documento conclusivo degli Stati generali dell’esecuzione penale, convocati dal Ministro della giustizia per ascoltare diagnosi e proposte da operatori e studiosi del mondo penitenziario. Certo, se si guarda a singole realtà di quel mondo, non mancano constatazioni meno sconsolanti. Impossibile, però, dire che sia, almeno largamente, realizzato quanto prescrive l’articolo 27 della Costituzione, cioè che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Intendiamoci. Non si tratta di favorire il dilagare di impunità a buon mercato, per prescrizione del reato o altre scappatoie, che comprensibilmente indignano il comune cittadino, alimentando la massa di richieste di “dentro senza pietà” e “buttare via la chiave”, anche a costo di errori giudiziari a danno di innocenti. Quanto alle alternative alla pena carceraria –si tratti della detenzione domiciliare o della prestazione di lavori socialmente utili- devono rispondere, nella concretezza delle applicazioni, a criteri di serietà ed efficacia. Ma bisogna pur rendersi conto che non è riempiendo le prigioni di sempre nuovi ospiti (per lo più soltanto emarginati di vario genere, che la promiscuità carceraria rende ancor più prede di circuiti delinquenziali senza uscita) che si fa giustizia e si accresce davvero la tutela della collettività.

Il carcere, dunque, soltanto come extrema ratio. E, nelle modalità della sua gestione, un luogo che non aggiunga, all’intrinseca restrizione di libertà, violazioni di altri diritti e della stessa dignità delle persone. Né una pena che spenga definitivamente ogni speranza: fatte salve, pure a questo proposito, le necessarie cautele contro pericoli di recidive che mettano gravemente a rischio l’incolumità delle persone e la sicurezza pubblica, ci si deve perciò interrogare se, in particolare, sia ammissibile che permanga il cosiddetto ergastolo ostativo.

E ad interrogarsi dovrebbero essere specialmente i cristiani, se si riflette bene su quel “non giudicate” che non vieta di valutare certi comportamenti o, alla società, di premunirsi contro certi rischi, ma dovrebbe impedire di bollare con marchi indelebili qualunque persona. Come conciliare, poi, quel monito, con lo spirito di vendetta che si vorrebbe informasse implacabilmente e per sempre almeno le pene più severe? E pensare che, a chiederlo, spesso non sono neanche le vittime più autentiche, dalle quali, pure, non si può pretendere che siano esse stesse a sollecitare opportuni, ma talora difficilissimi, percorsi di riconciliazione; ad alzare il tiro sono piuttosto cinici demagoghi, che soffiano sul fuoco di sentimenti e di paure, in parte da comprendere e però da trasformare in sollecitazioni a una maggiore legalità da parte di tutti, non in reazioni a mente e cuore chiusi.


*Professore emerito di diritto processuale penale, Università di Torino


da laGuardia n.3/2017

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