Vivere la fede in Sud America

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dal nostro archivio

di Giacomo D’Alessandro

Come si vive oggi la fede in latinoamerica? Come si pratica la prossimità? Come si alimenta un costante impegno per la giustizia? Sono alcune delle domande che mi sono portato dietro nei due mesi di viaggio “on the road” appena vissuti tra Colombia, Ecuador e Perù. Un itinerario a tappe lungo migliaia di chilometri, percorsi in oltre 200 ore di viaggi notturni su bus popolari. Una esplorazione spontanea di meraviglie della natura, culture indigene, progetti sociali e ambientali, di uno dei continenti più interessanti e vivaci per la sua storia recente. Il continente da cui proviene Papa Francesco.

Vorrei condividere alcune testimonianze di vita e di fede che io e Alessia Traverso abbiamo incontrato, a volte cercato, a volte per caso, nel pieno di questa avventura. E che ci hanno colpito come modelli di cui il “vecchio continente” può fare tesoro, se sapremo rimetterci in ascolto della realtà, delle persone e delle loro esigenze, oltre le sovrastrutture e le demotivazioni. Se vorremo rifarci a Gesù di Nazareth come modello di umanità e pienezza.

Allegria e speranza!

A Bogotà, capitale colombiana, abbiamo trascorso una insolita giornata con padre Daniel Delgado, vicario episcopale, in visita pastorale al barrio El Dorado dove sorge la parrocchia di San Alberto Hurtado. Daniel è un prete sorridente, con una comicità innata, di stile semplice ed essenziale. Con lui visitiamo una coppia di anziani malati, che in questa periferia arroccata in cima ai colli non hanno possibilità di muoversi né di ricevere i servizi di cui avrebbero bisogno. Visitiamo i bimbi di un asilo di quartiere. Portiamo la comunione a un ragazzo disabile che passa la vita costretto in un minuscolo appartamento, dove i familiari se ne prendono cura. Avrebbe potuto crescere risolvendo parte dei suoi limiti, praticando una riabilitazione profonda, cose a cui lo strato più basso della popolazione non ha accesso. A tutti Daniel si dedica con dolcezza, informandosi sulle condizioni e sulle esigenze, offrendo un momento di preghiera e di condivisione partecipata, per poi finire con una sincera esortazione: “…e mi raccomando, allegria e speranza!” Durante il pranzo ci racconta come ha scelto di vivere il suo incarico di vicario: stando il più possibile accanto ai parroci e nei quartieri tra le gente. “In questa piccola borsa mi porto dietro l’essenziale, così mi fermo a dormire nella casa parrocchiale e abbiamo tempo per stare insieme, la sera cucinare e guardare la tv, chiacchierare fino a tardi. Mi sembra il modo più efficace di condividere e conoscere meglio la vita dei preti, dei laici impegnati, della povera gente. Così posso capire le esigenze e offrire dove serve un supporto, un incoraggiamento, anche della formazione.”

Tra i narcos e i migranti

Accogliere i migranti a Ventimiglia e combattere i narcos in Colombia, contemporaneamente. Ci riesce don Rito Alvarez, nato nel Catatumbo, Colombia centrale, la cui famiglia è stata profuga a causa delle guerriglie paramilitari. Per incontri fortuiti don Rito è finito a fare il prete in Italia, e a Ventimiglia ha fatto in questi anni ciò che il Vangelo e la sua coscienza gli hanno suggerito: aprire la chiesa ai migranti, difenderli, cercare soluzioni ai diritti primari. Ma nello stesso tempo, grazie alla collaborazione della sua comunità parrocchiale e della sua famiglia, don Rito ha messo in piedi nella sua terra natia la Fondazione Oasis de Amor y Paz, che consiste in due campus dove vivono e studiano bambini, ragazzi e universitari, altrimenti destinati a una vita senza scelte, alla raccolta della coca, forse alla guerriglia. Siamo stati ospiti una settimana nelle cittadine di Abrego e Ocana, entrando in relazione con i bambini e i ragazzi, con gli educatori e i familiari, abbiamo assistito ai lavori nei campi e negli allevamenti, un’ottima idea per rendere sostenibili le due case e insegnare agli ospiti a prendersi cura di ciò che cresce. Ci ha stupito la forte consapevolezza di ciascuno – del piccolo German di 10 anni come di Dixon proveniente da una comunità indigena – per questa insperata opportunità tutta da cogliere: poter vivere come in una grande famiglia, imparare dei valori, dedicarsi allo studio per poter diventare contributi positivi alla comunità e alla famiglia. Notiamo con ammirazione che questo non è l’ennesimo progetto di cooperazione internazionale “calato dall’alto” da una qualche ONG occidentale, bensì è una visione, un sogno, un azzardo nelle mani della Provvidenza costruito da un giovane prete nato qui con l’aiuto e il supporto dei suoi familiari. Una risposta ad un bisogno reale, sentito, sofferto, da parte della stessa gente del luogo.

Vescovo degli Indios

Lorenzo Voltolini è un italiano di Brescia trapiantato in Ecuador da 40 anni. È Vescovo a Portoviejo, nella provincia di Manabì, così colpita dal terremoto di un anno e mezzo fa. Il suo racconto della cattedrale sventrata, dei corpi per la strada, dei palazzi rovesciati, fa venire i brividi. Pantaloni scuri, camicia bianca, croce di ferro, passo deciso, Lorenzo ha scelto di essere un Vescovo semplice, laborioso e dedito ai problemi della gente. Per il dopo terremoto si è speso totalmente. Ogni anno organizza una intera settimana di Sinodo per la diocesi, in modo da facilitare l’ascolto delle comunità più diverse e di favorire la costruzione di un piano pastorale condiviso, approfondito e a lungo termine. Lorenzo ha moltissimo da raccontare degli Indigeni Kichwa, con cui da missionario ha vissuto diversi anni. Ne conosce l’idioma, tiene perfino un corso in seminario all’ultimo anno, e rivendica un forte ruolo della chiesa latinoamericana nella difesa degli Indios dai soprusi di governi e multinazionali. Ci spiega il concetto di “buen vivir” come lo ha capito stando tra loro, un vivere “alto, grande” che integra il rispetto dell’ambiente, delle creature, della fraternità umana, con la ricerca di una gioia essenziale, condivisa e liberante. Un ottimo approccio da assumere nelle nostre civiltà “sviluppate” per misurare la felicità integrale e profonda delle persone, oltre i parametri e le imposizioni del capitalismo selvaggio.

Con i piccoli violati

Judith Villalobos è una donna fortissima. Ci ha ospitato per alcuni giorni nella Casa di Tuty, una vecchia struttura malandata nella periferia di Trujillo, nord del Perù. Non lontano dai siti archeologici Moche, Judith ha trovato circa 15 anni fa il terreno per avviare un progetto di accoglienza di minori vittime di violenza familiare. Con il sostegno dei Gesuiti italiani, che ogni estate svolgono qui campi di volontariato, è nata l’associazione CAEF. Affianca Judith sua figlia Maria José, e insieme si occupano della gestione del centro, dell’educazione dei bambini e dei ragazzi, della sensibilizzazione degli universitari perché conoscano e sperimentino la situazione di emarginazione, di sofferenza e di solitudine che tanti piccoli sono condannati a vivere in Perù. Judith si dice spinta da una fede incrollabile, di cui è grata e da cui trae serenità. Non aveva deciso di sua sponte di lavorare con i bambini, ma ad un certo punto della sua vita, mettendosi in ascolto della realtà, ha sentito di poter cercare soluzioni a questo problema molto diffuso e pochissimo seguito dallo Stato. Ci rendiamo conto in prima persona del bisogno di affetto che manifestano queste creature, incontriamo gli sguardi tristi e smarriti delle madri bambine (13-14 anni), con appresso i loro neonati, frutto di violenza di qualche patrigno disumano. Qui hanno fatto un percorso ed hanno deciso di accettare la gravidanza, di provare a ricominciare, magari di riprendere a studiare, mentre imparano giorno per giorno a fare le mamme.

Un seme di liberazione

A Lima, capitale del Perù, il vero “sindaco” del distretto periferico di El Agustino si chiama Chiqui, ed è un rocker gesuita. Al secolo José Ignacio Mantecon, padre Chiqui incarna in totale umiltà e laboriosità quella che è stata la teologia della liberazione, la prima teologia non europea nata applicando il Concilio Vaticano II nei contesti del latinoamerica. L’opzione per i poveri, la costruzione del Regno di Dio come nuova civiltà terrena, la dismissione del clericalismo e dei privilegi ecclesiastici, la precedenza del popolo di Dio e delle comunità di base come luogo di maturazione della fede e sua traduzione in azioni socio-politiche. Sono solo alcuni dei fronti di sequela del Vangelo che Chiqui come tantissimi altri uomini e donne di fede hanno cercato di vivere qui, di fronte a enormi secolari disuguaglianze, discriminazioni, miserie, repressioni. In 40 anni questo gesuita minuto, di origine spagnola, col suo inconfondibile orecchino e una voce sottile, calda, pungente, ha lavorato al fianco di tutte le persone di buona volontà, desiderose di cambiare vita, di costruire presidi sociali per prevenire la criminalità e la povertà. Con Chiqui si sono convertiti in operatori sociali, sportivi, culturali nientemeno che molti ragazzi ex pandilleros, cioè membri delle gang armate. I travestiti, tradizionalmente numerosi in questo quartiere, hanno trovato in lui un punto di ascolto e di supporto per auto-organizzarsi e uscire dalla ghettizzazione. Con l’aiuto di molte donne del quartiere, di volontari da tutto il mondo e di un vasto esercito di “scartati della società”, Chiqui ha messo su una ong (Encuentros) che oggi ha progetti in tutto il Perù, e che qui a El Agustino ha aperto ludoteche, punti di ascolto psico-pedagogico per bambini e famiglie, in ogni angolo più disperato del quartiere. La sua è una modestia assordante, è il popolo a darci l’idea giorno per giorno di quanto sia stato lievito nella pasta, di quanto sia sale della terra qui nella polvere di periferia, dove stanno gli immigrati, gli ex campesinos inurbati. “Ho trovato un modo di intendere la fede e l’impegno cristiano, sono come tre cerchi concentrici: nel primo hai la possibilità di incontrarti con tutte le persone di buona volontà, che siano cristiani, musulmani, agnostici, marxisti… L’obiettivo è agire insieme, ad esempio per il rispetto dei diritti umani, per una sanità di qualità per i più poveri, per l’educazione e così via. Nel secondo cerchio, chi si dice credente esprime non solo a parole ma specialmente vivendo le cose fondamentali del Vangelo: il perdono sempre, di tutti e a tutti; l’amore, incluso ai nemici; le beatitudini, dei poveri, di chi soffre; il padre nostro, vivere così perché questo è mio fratello, non solamente perché insieme possiamo conseguire un obiettivo politico o sociale. Solo se lavori in questa linea puoi arrivare al terzo e ultimo cerchio, in cui con alcuni che hanno fatto lo stesso cammino puoi condividere la fede, l’eucaristia. Però normalmente la chiesa lavora al rovescio: prima la catechesi, la comunione eccetera, e alla fine puoi arrivare a un cambiamento concreto. Ma è al rovescio.”


da laGuardia n.9/2017

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