Sinodale e in uscita. Così la Chiesa può incontrare i giovani

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Nicolò Anselmi

intervista di Giacomo D’Alessandro

Mi pare che con questo Sinodo sui Giovani papa Francesco abbia voluto sancire un modo nuovo di praticare la sinodalità, mettendo a sistema un prima, un durante e un dopo il Sinodo che diventano davvero incisivi, a partire dalla consultazione aperta. Nel documento finale, che trovo particolarmente accessibile e aderente alla realtà di oggi, il vostro punto di partenza è l’urgenza di rimettersi “in ascolto” del mondo giovanile. L’importanza di “lasciare emergere le domande dei giovani nella loro novità, e coglierne la provocazione”. 

Indubbiamente l’ascolto è una questione fondamentale. Non può essere unicamente di tipo sociologico, dev’essere “teologale”: noi crediamo che Dio ci parla oltre che con la sua Parola anche attraverso le persone, le situazioni con cui veniamo a contatto. Noi crediamo che lo Spirito ha una creatività che va al di là di ciò che noi, per quanto attenti, possiamo intuire. Priorità all’ascolto dei giovani è quindi priorità all’ascolto della volontà di Dio che si esprime nelle persone. L’ascolto non può più mancare.

I vescovi chiedono di ripensare le priorità quotidiane di preti e vescovi, che risultano troppo oberati da altre incombenze per praticare un ascolto efficace. Cosa vi sottrae più tempo?

Oltre che di tempo è soprattutto una questione di atteggiamento. Certo, la fretta e l’efficienza non fanno rima con ascolto. È necessaria proprio una disposizione spirituale, l’essere convinti che Dio ci parla attraverso le vite degli altri. È necessaria una conversione mentale, oltre ad una conversione pastorale, che ci metta nelle condizioni di non essere travolti dagli impegni.

Dal tempo allo spazio, il Sinodo riconosce che “la parrocchia oggi fatica ad essere un luogo rilevante per molti giovani: la sua bassa significatività, la poca dinamicità nelle proposte, insieme ai cambiamenti spazio-temporali degli stili di vita, sollecita un rinnovamento. […] Spesso il fiume della vita giovanile scorre ai margini della comunità, ma senza incontrarla”. È un’autocritica forte. Ritrovi questa realtà nella tua esperienza di parroco in centro storico, dove transitano molti flussi giovanili?

In effetti è vero. La parrocchia riveste comunque un ruolo fondamentale, perché la comunità cristiana è quel grembo dove puoi incontrare il Signore. Gesù stesso ha avuto bisogno di una comunità, quindi va ragionevolmente curata con l’Eucaristia domenicale, un po’ di formazione e di preghiera. In parrocchia sono presenti anche alcuni giovani, pochi rispetto alla totalità del mondo giovanile; indubbiamente oggi la partita dell’annuncio si deve giocare stando con umiltà negli ambienti dove la gente vive. La scuola, l’università, il lavoro, il servizio agli ultimi e al mondo della sofferenza. Quando vado in università mi fa impressione vedere la quantità di giovani che vive completamente al di fuori dei nostri ambienti. 

Nella “società liquida” intravedi qualcosa che abbia una forza attrattiva positiva per i giovani?

Ho notato che alle proposte semplici, comprensibili e grintose, molti giovani rispondono con stupore e curiosità. I ragazzi devono vedere e toccare che si fa qualcosa di concreto, accessibile e non contorto, e che sia a tinte forti: fuggono le cose fatte col bilancino, che cercano di non scontentare nessuno. L’equilibrio non è dei giovani. A pensarci bene neanche Gesù era un equilibrista, anzi era uno sbilanciato nell’amore. I 37 giovani che hanno vissuto il Sinodo con noi intervenivano sempre con grinta, rispetto al discorso equilibrato di molti adulti, attenti al politicamente corretto, a non creare tensioni.

Il Sinodo ha affrontato il dramma degli abusi “di potere, economici, di coscienza, sessuali”. Ha sancito che occorre “sradicare le forme di esercizio dell’autorità su cui essi si innestano e di contrastare la mancanza di responsabilità e trasparenza con cui molti casi sono stati gestiti”. E come già Papa Francesco, ha indicato la causa principe nel “clericalismo”, il quale “nasce da una visione elitaria ed escludente” che “interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio”, ritenendo “di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare”. È un’autocritica durissima dell’autorità nella chiesa.

Sono tutte cose assolutamente condivisibili. Però io credo che, presentando queste forme di abuso in tutte le sfaccettature proposte dal Sinodo e prima ancora dal Papa, talvolta si lasci in secondo piano il fatto che sono sostanzialmente frutto di un malessere della persona. Pensare di essere autoreferenziali, di dominare gli altri… È un modo di compensare delle carenze. Non mi sentirei di dire che è un fatto strutturale della “casta” dei preti. Certe deviazioni possono accadere quando la persona – ed è la cosa peggiore che possa succedere ad un sacerdote – si isola: diventa incapace di fraternità reale, con i confratelli o con gli altri in genere; e allora subentra un isolamento dove davvero puoi arrivare a sentirti chissà che cosa. Il sistema delle coperture che sono state messe in atto, poi, è deprecabile, perché scientemente voluto.

C’è un passaggio del Sinodo che tratteggia il “malessere psicologico” che cresce in molti giovani. “Depressione, malattia mentale e disordini alimentari, legati a vissuti di infelicità profonda o all’incapacità di trovare una collocazione all’interno della società”. Che ruolo possono avere le comunità cristiane?

Una delle frontiere della nostra pastorale, per diventare realmente accogliente, è la presenza di una comunità cristiana che sa fare cose alla portata di tutti. Non discorsi e attività elitarie, ma situazioni in cui può starci dentro qualsiasi tipo di giovane: anche quello che non ha dei ritmi di vita eccezionali, anche quello che non va più a scuola o non ha una cultura raffinata… La semplicità della gita in bicicletta, della cena insieme, del passare una serata a cantare, piuttosto che investire sempre solo in proposte strutturate, intellettuali e – in troppi casi – costose. Gesù stesso appariva strano perché andava ai pranzi, alle feste. Mangiare insieme è una di quelle abitudini che dà un senso di uguaglianza senza bisogno di ragionamenti.

Sono proprio queste dinamiche a fare da anticorpi alla cultura clericale, di un potere che si stacca…

Esatto, che si stacca e che parla un linguaggio che soltanto lui capisce.

I giovani desiderano protagonismo, specie su temi come la sostenibilità, le discriminazioni, il razzismo, la comunicazione digitale, il consumo critico. Tra una lunga serie di autocritiche, il Sinodo inserisce “il ruolo passivo assegnato ai giovani all’interno della comunità”. Lo ritrovi nella vita ecclesiale?

Sì, accade. Talvolta i giovani diventano gli esecutori di cose decise da altri. Mi sembra un atteggiamento miope, spesso involontario, che spero sia superato, ma potrebbe ancora accadere. La sinodalità serve proprio a superare questo problema. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che nei nostri consigli pastorali i giovani sono presenti. Ma “come” ci sono? 30 adulti, 2 giovani, in genere silenziosi. Una sproporzione assolutamente inadeguata e inopportuna. E poi ascoltarli è un processo che ha bisogno di tempo: è evidente che la persona esperta, che ha già organizzato dieci feste parrocchiali, domini le decisioni. Si tratta di fatto di una sinodalità di facciata, di poco ascolto, di poca fiducia e questa situazione ha come frutto l’allontanamento del giovane; la prima volta sta al gioco perché glielo hai chiesto, la seconda perché gli sei simpatico, la terza si sfila. E va altrove, dove trova spazi in cui possa esprimersi appieno, anche pasticciando. La risposta alla passività dei giovani è un ascolto prolungato: dare fiducia, lasciare tempi e spazi.

“I giovani sono portatori di un’inquietudine che va prima di tutto accolta, rispettata e accompagnata, scommettendo con convinzione sulla loro libertà e responsabilità”. Il Sinodo arriva a riconoscere che a volte possono essere più avanti dei pastori. Passiamo tanto tempo a fare progetti, a proporre, a chieder loro di partecipare alle iniziative che caliamo noi, mentre forse a volte si tratta solo di trovare il Vangelo in ciò che già c’è, e riuscire ad accompagnarlo.

Si è parlato molto di questa inquietudine dei giovani. A volte in negativo: sei un inquieto, non sai cosa vuoi. Invece spesso è la via di chi cerca il meglio e non si accontenta. Un’inquietudine verso la santità, che è una parola un po’ desueta, ma sta a dire verso “un meglio”. L’adulto a un certo punto si arrende, mentre i giovani sono più avanti perché non si sono ancora seduti: cercano la loro vocazione, si interrogano continuamente su quale esperienza fare. Certo non puoi restare un irrisolto per sempre, devi capire pian piano che l’inquietudine deve riguardare il “come” e “per chi” fai le cose. È nel cercare di farle “come Gesù” e “per il bene e la salvezza di tutti” che dipende la nostra felicità. Il genitore, il sacerdote, l’insegnante, il missionario, il volontario, l’impiegato…qual è meglio dell’altro? È come e per chi lo fai, che ti fa seguire Gesù, non che cosa fai.

Il Sinodo riscopre l’importanza di offrire l’accompagnamento spirituale del giovane, afferma “la necessità di guide spirituali, padri e madri con una profonda esperienza di fede e di umanità”. Come si mette in pratica questa novità per i laici?

Alcuni proponevano di affidare l’accompagnamento a team di esperti: psicologi, educatori, religiosi formati; alla fine l’assemblea sinodale ha voluto incoraggiare una comunità cristiana adulta che sia tutta capace di accompagnare. Anche un giovane in gamba, un capo scout, un genitore, un docente o un vecchio prete devono sapere e poter fare questo servizio.

“La sinodalità è il metodo con cui la chiesa può affrontare antiche e nuove sfide”: raccogliere e far dialogare i doni di tutti i suoi membri, a partire dai giovani. La domanda che brucia è: come realizzarla? Quali strumenti già funzionano, quali si possono introdurre? Perché altrimenti ci fermiamo sempre a buone parole sulla carta. E quando il giovane viene coinvolto, si accorge presto che l’ambiente chiesa è impermeabile al suo contributo, lo tiene ai margini, e va altrove amareggiato. L’ho sperimentato sulla mia pelle e ho visto diversi giovani subire questo destino.

Qui è tutto da inventare. Uno stile di ascolto e di fiducia dilatato nel tempo è da perseguire a tutti i livelli, forse anche strutturandolo: dobbiamo credere che le decisioni, le verifiche, vanno fatte insieme e che lo Spirito Santo è con noi. Ci dev’essere un respiro ampio, pur con compiti e ruoli diversi. La sinodalità ha un prezzo: non puoi sempre vincere, devi veramente ascoltare, se serve rinunciare al tuo progetto e accogliere quello che viene. Al Sinodo sono venute fuori due voci particolarmente potenti: i giovani e i poveri. Che Dio parla attraverso i poveri ce lo hanno ricordato con forza i vescovi dell’America Latina condividendo le loro esperienze di questi decenni. Giovani e poveri vanno attentamente ascoltati, è da inventare come farlo davvero. È la strada della chiesa di oggi, secondo me.

Ha senso pensare di farlo attraverso dei sinodi diocesani?

Beh, ci sono sempre stati, alcuni sono già partiti, quindi perché no? La nostra diocesi da tempo, per volontà del Cardinale, si muove attraverso lunghe e ampie consultazioni. Gli organismi di partecipazione, le consulte, i consigli pastorali e degli affari economici non sempre funzionano; vanno sostenuti e incoraggiati. L’esperienza che ho vissuto a Roma è stata veramente bella e arricchente, una nuova Pentecoste.


Mons. Nicolò Anselmi è Vescovo ausiliare di Genova e padre sinodale.

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