La parte “giusta” da cui vedere il mondo

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di Mirco Mazzoli
La testimonianza di P. Mauro Armanino, missionario in Niger, ci aiuta a capire che la giustizia è una questione di prospettive.

P. Mauro Armanino, missionario genovese della SMA – Società Missioni Africane, da quasi nove anni vive in Niger, lo stesso paese in cui, oltre un anno fa, è stato rapito il suo confratello P. Gigi Maccalli, di cui non si hanno ancora notizie, alla data di stampa di questo articolo. P. Mauro, come tutti i suoi confratelli, non manca mai di rendere testimonianza della realtà in cui vive ed opera, perché qui, “da noi”, crescano consapevolezza e partecipazione. Nel corso del suo più recente ritorno a Genova, nel settembre scorso, ha tenuto una serie di incontri pubblici, tra cui uno promosso dal Tavolo Giustizia e Solidarietà Genova e dai Volontari per l’Auxilium ODV, da cui abbiamo tratto le note che seguono.

A tema, le persone migranti e le rotte migratorie viste dal Sud del mondo, “la parte giusta”, chiarisce subito P. Mauro, con il suo tono asciutto, senza abbellimenti né giri di parole. La parte giusta è quella a cui noi non apparteniamo, per mille motivi storici, sociali e personali. P. Mauro non punta il dito, non gli interessa condannare ma che gli occhi si aprano ed inizino a guardare le cose dalla prospettiva corretta. Per aiutarci a farlo, P. Mauro prende a prestito alcune parole guida, tutte con la lettera P

Privilegio

“Io sono un privilegiato perché posso guardare il mondo dalla parte giusta, dalla parte dei poveri. Non è la stessa cosa guardare il mondo da Niamey, capitale del Niger, o dall’Italia, da Genova, così come non è la stessa cosa guardare Genova da Albaro o dal Centro Storico. Scegliere da dove guardare il mondo dice in che modo lo guardiamo. Scegliere da dove guardare il mondo è la prima scelta da fare.”

Passione

“Da dove vengo io ‘passione’ significa due cose molto concrete. La prima: passione come sofferenza, violenza, rapimenti, emigrazioni, carestie, bassa aspettativa di vita, alta probabilità di morte. La seconda è il suo opposto: passione come coinvolgimento e adesione profonda al cammino di un popolo, adesione profonda alla vita. In Niger, nel Sahel, in Africa non abbiamo paura di vivere come invece l’abbiamo qui. La vita non va barricata da qualche parte: è fatta per essere donata. Gli africani la donano, si espongono alla morte, alla povertà, alle migrazioni terribili per affermare la vita.” 

Provocazione

“Da quelle terre ci arrivano diverse provocazioni al nostro modo di vivere e comportarci, come società, come Stati. La loro povertà e sofferenza, la loro morte nel viaggio, il loro sbarco sulle nostre coste, sono una provocazione al nostro sistema di controllo, per garantire i pochi che hanno tanto e tenere lontani i tanti che hanno poco o nulla. Sono una provocazione al sistema con cui rapiniamo le loro risorse naturali e alimentiamo le loro guerre, al fine di mantenere il nostro modello di sviluppo, quelle stesse guerre che, oltre ai morti, generano migliaia di persone migranti. Questa gente vuole un futuro migliore, vuole avere le stesse nostre possibilità, sedersi alla nostra stessa tavola e noi non lo possiamo accettare. Sono una provocazione persino al nostro inverno demografico, alle nostre società invecchiate, con la loro giovane età e, ancora di più, con il loro lasciare fluire la vita e fare figli. Spesso, da questo nostro mondo occidentale, c’è chi mi invita a spiegare loro di non mettere al mondo figli che non possono mantenere. È una domanda che rivela il nostro modo di pensare e di pensarci.” 

Passare

“Le persone migranti devono passare il nostro sistema di frontiere, visibili e invisibili, innalzato per fermarle e selezionarle: fili spinati, muri, centri di identificazione ed espulsione. Filtri che servono per sceglierle, renderle docili e utili al nostro sistema economico. Perché sappiano che sono qui per diventare servi. Saranno sfruttati nei nostri campi o detenuti nelle nostre prigioni per il reato di clandestinità, spinti sulle nostre strade, definiti ‘irregolari, illegali, clandestini’ con un linguaggio armato, che è esso stesso una frontiera”.

Porte

“Possiamo decidere di aprire le porte – e i porti – che abbiamo chiuso, sbarrato. Quelle porte sbarrate a quelli di fuori rinchiudono per primi noi stessi. In realtà i migranti sono venuti a salvarci, perché sono per noi degli specchi. Non esiste infatti una ‘crisi migratoria’, le migrazioni sono sempre esistite. Esiste invece una ‘crisi della nostra società’. La realtà delle migrazioni è uno specchio in cui sveliamo a noi stessi le nostre chiusure, paure e miserie.”

Di fronte a tutto questo, che speranza rimane? 

“In questi ultimi anni di permanenza in Niger – risponde P. Mauro –  mi è diventata cara l’immagine della sabbia, della polvere. Ne abbiamo tanta in Niger, certi giorni di vento invade ogni cosa. La sabbia è immagine della nostra fragilità. Richiama quel monito quaresimale: ‘Ricordati che sei polvere’. Ci toglie la sindrome da salvatori del mondo e ci restituisce al nostro limite. Abbiamo smarrito il senso del limite. Per questo abbiamo paura di vivere. Siamo solo pugni di sabbia, ma siamo sabbia abitata dallo Spirito. Ripartire dal nostro limite, dalla nostra fragilità è il primo passo per non perdere la speranza. Una speranza fragile, come i castelli di sabbia, da rinnovare ogni giorno. Se non avessi speranza non sceglierei di stare in terra di missione.”

E noi che siamo qui, da questa parte del mondo, cosa possiamo fare per coltivare speranza?Primo: scegli da dove guardare il mondo, inizia a cambiare il tuo sguardo: uno sguardo trasformato può trasformare la realtà. Secondo: scegli di informarti e formarti, scegli fonti dirette e corrette. Terzo: scegli di vincere il senso di impotenza perché è un falso: puoi fare molto se inizi a giocarti nelle relazioni, ad ascoltare l’altro, a rispettarlo con tutta l’attenzione che merita“. 

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